FAQ

Ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. 81/08, il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi e predisporre il documento di valutazione dei rischi, come previsto dall’art. 28 dello stesso decreto, al fine di eliminarli e/o ridurli al minimo. Una delle possibili misure di prevenzione che il datore di lavoro deve applicare per ridurre i rischi che possono incidere sulla SALUTE dei lavoratori è proprio la sorveglianza sanitaria.

Come previsto dall’art. 41 del D. Lgs. 81/08, la sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente ed è obbligatoria quando è prevista ai sensi della vigente normativa. Il legislatore ha inoltre chiesto alla Commissione Consultiva Permanente per la Salute e Sicurezza sul Lavoro di identificare i casi in cui la sorveglianza sanitaria sia obbligatoria, ma fino ad oggi non ha emanato nessuna indicazione in merito.

Per quanto sopra, al momento attuale, la sorveglianza sanitaria è obbligatoria quando dalla valutazione di cui all’art. 17 sono presenti:

  • Rischi dovuti alla movimentazione dei carichi e movimenti ripetuti per gli arti superiori;
  • Rischi legati all’uso di attrezzature munite di videoterminale per più di 20 ore alla settimana;
  • Rischi legati all’esposizione ad agenti fisici quali: rumore, vibrazioni meccaniche, ultrasuoni/infrasuoni, campi elettromagnetici, radiazioni ottiche, microclima;
  • Rischi legati all’esposizione ad sostanze pericolose: chimiche, cancerogene, mutagene, sensibilizzanti se questa esposizione è “non irrilevante per la salute”;
  • Rischi legati alla presenza di Agenti biologici;
  • Lavoro notturno;
  • Radiazioni ionizzanti;
  • Lavoro in sovrappressione;
  • Lavoro in ambienti confinati;
  • Lavoro su impianti elettrici ad alta tensione;
  • Lavoratori addetti al servizio di controllo delle attività di intrattenimento;
  • Addetti al settore sanitario esposti a rischi per ferite da taglio.

Oltre all’elenco sopra riportato, le Regioni potrebbero emanare casi aggiuntivi per il quale è obbligatoria la sorveglianza sanitaria.

In conclusione, se un datore di lavoro (anche con un solo lavoratore come definito dall’art. 2 comma 1 lettera a), identifica la presenza di uno (o più) dei rischi sopra elencati, deve contattare un medico competente il quale predispone il protocollo sanitario al fine di identificare la cadenza della sorveglianza sanitaria.

Si, un lavoratore interinale che entra presso una ditta utilizzatrice deve essere sottoposto a sorveglianza sanitaria quando quest’ultima è obbligatoria ai sensi dell’art. 41 D.Lgs. 81/08.

Il Decreto Legislativo 81/2015, che gestisce i contratti di lavoro (Jobs Act), specifica che il datore di lavoro somministratore deve sottoporre a visita medica il lavoratore, ma lo stesso decreto riporta anche che tale attività può essere fatta dal datore di lavoro utilizzatore se l’adempimento viene specificato nel contratto tra somministratore e utilizzatore.

Con quest’ultima postilla sopra riportata si può sicuramente concludere che la sorveglianza sanitaria sarà quasi sempre a carico del datore di lavoro utilizzatore.

Da tenere presente però che il datore di lavoro somministratore deve fornire indicazioni in merito ai rischi presenti presso l’azienda utilizzatrice. La cartella sanitaria del lavoratore interinale deve essere conservata in busta chiusa dal datore di lavoro utilizzatore (o dal suo medico competente) e deve essere restituita al datore di lavoro somministratore (o al suo medico competente) al momento della conclusione della collaborazione lavorativa.

Il lavoratore interinale deve essere formato sui rischi presenti presso l’azienda utilizzatrice. Nonostante il datore di lavoro del lavoratore interinale sia l’agenzia, solitamente l’onere di formare il lavoratore ricade sulla ditta utilizzatrice in quanto questo viene definito sul contratto. L’agenzia interinale è comunque obbligata a riportare per iscritto i rischi presenti presso l’utilizzatore sul contratto con il lavoratore.

Ai sensi del D.Lgs.81/2015, “il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro” (art. 34 c.3 D.Lgs.81/2015).

Questa norma va a collegarsi all’articolo 4 c.2 del D.Lgs.81/08, il quale – rimasto invariato – prevede che “i lavoratori utilizzati mediante somministrazione di lavoro ai sensi degli articoli 20 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 [ora art. 30 e seguenti D.Lgs.81/2015, n.d.r.], e successive modificazioni e i lavoratori assunti a tempo parziale ai sensi del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modificazioni, si computano sulla base del numero di ore di lavoro effettivamente prestato nell’arco di un semestre.”

Il datore di lavoro è sempre responsabile di verificare che la ditta incaricata rispetti le scadenze di manutenzioni e verifiche. Potrebbe non essere responsabile di tale onere solamente nel caso in cui abbia delegato per iscritto, fornendo le adeguate libertà economiche ed organizzative, una persona interna all’azienda. Ma anche in questo caso il datore di lavoro è obbligato a verificare l’effettivo lavoro svolto dal suo lavoratore.

In caso di incidente, il datore di lavoro comunque può rifarsi su quanto scritto sul contratto per eventuali danni ma non sarà esonerato dal rispondere in quanto primo responsabile della sicurezza in azienda.

Ai sensi dell’art 39 comma 6 del D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico coordinatore nei seguenti casi:

  • aziende con più unità produttive;
  • nei casi di gruppi di imprese 
  • nel caso in cui emerga la necessità ecessario dalla valutazione dei rischi, il datore di lavoro.

Il datore di lavoro deve formare i lavoratori dipendenti entro massimo 60 giorni dopo l’assunzione. La normativa specifica che i percorsi formativi debbano essere avviati prima dell’effettivo inserimento del nuovo dipendente, e solo nel caso in cui questo sia impossibile deroga l’obbligo successivamente all’assunzione

La formazione dei lavoratori in caso di nuove assunzioni è regolata dall’Accordo Stato Regioni del 21/12/2011, nel quale, al punto 10, sono riportate le disposizioni transitorie di prima applicazione, che dispone infatti:

“Il personale di nuova assunzione deve essere avviato ai rispettivi corsi di formazione anteriormente o, se ciò non risulta possibile, contestualmente all’assunzione. In tale ultima ipotesi, ove non risulti possibile completare il corso di formazione prima della assunzione del dirigente, del preposto o del lavoratore alle proprie attività, il relativo percorso formativo deve essere completato entro e non oltre 60 giorni dalla assunzione”.

Secondo l’Accordo, dunque, la formazione dei lavoratori neoassunti, ma anche per i dirigenti e i preposti, dovrebbe essere erogata prima che il lavoratore venga adibito alla sua attività, salvo il caso che questo sia impossibile l’accordo consente di poter provvedere nel momento stesso dell’assunzione, come del resto è stato indicato nelle disposizioni di legge.

60 giorni indicati nell’Accordo non si intendono come il periodo entro cui il datore di lavoro debba avviare il percorso formativo, ma si intendono come il tempo massimo entro il quale il lavoratore lo deve concludere, e comunque solo nel caso non abbia potuto partecipare ai corsi precedentemente all’avvio delle proprie mansioni.

All’articolo 37 del D. Lgs. n. 81/2008 il legislatore ha deciso che la formazione dei lavoratori e per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS), deve avvenire durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico dei lavoratori.

Il datore di lavoro deve, ai sensi dell’art. 18 comma 1 lettera n), “consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute”. Quindi i lavoratori hanno diritto di avere un loro rappresentante secondo la seguente procedura:

  • per le aziende fino a 15 lavoratori il rappresentante viene nominato direttamente dai lavoratori;
  • per le aziende con più di 15 lavoratori il rappresentante viene nominato all’interno delle rappresentanze sindacali.

Nel caso in cui i lavoratori nominino un loro rappresentante il datore di lavoro avrà i seguenti obblighi:

  • formare il RLS ai sensi dell’art. 37 comma 10 D.lgs. 81/08;
  • comunicare tale nominativo all’INAIL utilizzando il portale del Istituto Nazionale.

In conclusione il datore di lavoro non può venire sanzionato per la mancata nomina del RLS.

Il D.lgs. 81/08 specifica che “Al lavoratore così definito” dall’art. 2 comma 1 lettara a) “è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di società […]”. Perciò, il datore di lavoro è obbligato a somministrare la formazione, come prevista dall’Accordo Stato Regioni 21/12/2011, anche al socio lavoratore.

Ai sensi dell’art. 190 del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. (T.U.A. – Testo Unico Ambiente), sono obbligati alla compilazione e tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti:

  • gli enti e le imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi;
  • gli enti e le imprese produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi da lavorazioni artigiane e industriali e di rifiuti speciali non pericolosi da potabilizzazione e altri trattamenti delle acque e di abbattimenti fumi;
  • gli altri detentori di rifiuti, quali enti e imprese che raccolgono e trasportano rifiuti o che effettuano operazioni di preparazione per il riutilizzo e di trattamento, recupero e smaltimento, compresi i nuovi produttori e, in caso di trasporto intermodale, i soggetti ai quali sono affidati i rifiuti speciali in attesa della presa in carico degli stessi da parte dell’impresa navale o ferroviaria o dell’impresa che effettua il successivo trasporto;
  • gli intermediari e i commercianti di rifiuti.

Sono esclusi dall’obbligo della tenuta dei registri di carico e scarico:

  • le attività di raccolta e trasporto di propri rifiuti speciali non pericolosi effettuate dagli enti e imprese produttori iniziali.
  • gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile produttori iniziali di rifiuti pericolosi adempiono all’obbligo della tenuta dei registri di carico e scarico con una delle due seguenti modalità:
    • con la conservazione progressiva per tre anni del formulario di identificazione del rifiuto
    • con la conservazione per tre anni del documento di conferimento di rifiuti pericolosi prodotti da attività agricole, rilasciato dal soggetto che provvede alla raccolta di detti rifiuti nell’ambito del circuito organizzato di raccolta 

Nel registro di carico e scarico devono essere annotate le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti prodotti o soggetti alle diverse attività di trattamento. 

Le annotazioni devono essere effettuate:

a) per gli enti e le imprese produttori iniziali, entro dieci giorni lavorativi dalla produzione e dallo scarico;

b) per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di preparazione per il riutilizzo, entro dieci giorni lavorativi dalla presa in carico dei rifiuti e dallo scarico dei rifiuti originati da detta attività;

c) per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di trattamento, entro due giorni lavorativi dalla presa in carico e dalla conclusione dell’operazione di trattamento;

d) per gli intermediari e i commercianti, almeno due giorni lavorativi prima dell’avvio dell’operazione ed entro dieci giorni lavorativi dalla conclusione dell’operazione.

Il modello di dichiarazione MUD è il modello unico per la comunicazione dei rifiuti prodotti, smaltiti, avviati al recupero o trasportati da Enti, imprese e comuni.

Il Modello Unico di Dichiarazione ambientale (MUD) deve essere presentato alla Camera di commercio, Industria ed Artigianato e Agricoltura competente per territorio, in cui ha sede l’unità locale cui si riferisce la dichiarazione. I soggetti che svolgono attività di solo trasporto e gli intermediari senza detenzione devono invece presentare il MUD alla Camera di commercio della provincia nel cui territorio ha sede la Sede legale dell’impresa cui la dichiarazione si riferisce. Deve essere presentato un MUD per ogni unità locale soggetta a tale adempimento. 

I soggetti tenuti alla presentazione del MUD sono i seguenti:

1. La Comunicazione Rifiuti  deve essere presentata dai seguenti soggetti 

– Chiunque effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti;

– Commercianti ed intermediari di rifiuti senza detenzione;

– Imprese ed enti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento dei rifiuti;

– Imprese ed enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi;

– Imprese agricole che producono rifiuti pericolosi con un volume di affari annuo superiore a Euro 8.000,00;

– Imprese ed enti produttori che hanno più di dieci dipendenti e sono produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da lavorazioni industriali, da lavorazioni artigianali e da attività di recupero e smaltimento di rifiuti, fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento dei fumi (così come previsto dall’articolo 184 comma 3 lettere c), d) e g) del D.Lgs. 152/2006);

Sono esclusi dall’obbligo di presentazione del MUD, in base alla Legge n. 208 del 28/12/2015, le imprese agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile, nonché i soggetti esercenti attività ricadenti nell’ambito dei codici ATECO 96.02.01, 96.02.02 e 96.09.02.

2. La Comunicazione Veicoli Fuori Uso  deve essere presentata dai  soggetti che effettuano le attività di trattamento dei veicoli fuori uso e dei relativi componenti e materiali.

3. La Comunicazione Imballaggi deve essere presentata da:  

– CONAI o altri soggetti di cui all’articolo 221, comma 3, lettere a) e c) del D.Lgs. 152/2006;

– Impianti autorizzati a svolgere operazioni di gestione di rifiuti di imballaggio di cui all’allegato B e C della parte IV del D.Lgs. 152/2006.

4. La Comunicazione Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche deve essere presentata dai  soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dei RAEE rientranti nel campo di applicazione del D.Lgs. 49/2014.

5. La Comunicazione Rifiuti Urbani, Assimilati e raccolti in convenzione deve essere presentata dai soggetti istituzionali responsabili del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani e assimilati.

6. La Comunicazione Produttori di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche deve essere presentata dai produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche iscritti al Registro Nazionale e Sistemi Collettivi di Finanziamento.

L’AUA è il provvedimento istituito dal D.P.R. 59/2013 che incorpora in un unico titolo diverse autorizzazioni ambientali previste dalla normativa.

L’AUA sostituisce gli atti di comunicazione, notifica ed autorizzazione in materia ambientale individuati all’art. 3, D.P.R. 59/2013, ossia: 

  1. autorizzazione agli scarichi (artt. 124 e ss., D.Lgs. 152/2006);
  2. comunicazione preventiva per l’utilizzo agronomico degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari e dalle acque reflue delle medesime aziende (art. 112, D.L.vo n. 152/2006);
  3. autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti (art. 269, D.Lgs. 152/2006);
  4. autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli impianti e le attività in deroga (art. 272, D.Lgs. 152/2006);
  5. il nulla osta per il rilascio di concessioni edilizie relative a nuovi impianti ed infrastrutture adibiti ad attività produttive, sportive e ricreative e a postazioni di servizi commerciali polifunzionali ai sensi della Legge 447/1995 (Legge quadro sull’inquinamento acustico);
  6. autorizzazione all’utilizzo dei fanghi derivanti dal processo di depurazione in agricoltura (art. 9, D.Lgs. 99/1992);
  7. comunicazioni in materia di autosmaltimento e recupero di rifiuti (artt. 215 e 216, D.Lgs. 152/2006).

Son tenute a far domanda di AUA tutte le piccole e medie imprese (come definite dal Decreto 18 aprile 2005), che hanno necessità di dotarsi di almeno uno dei titoli abilitativi summenzionati che non siano soggette all’Autorizzazione Integrata Ambientale.

NON sono soggetti ad AUA:

  • installazioni sottoposte ad AIA 
  • progetti sottoposti a procedimenti di VIA;
  • impianti di deposito di oli minerali, compresi i gas liquefatti
  • gli stabilimenti in cui sono presenti esclusivamente impianti o attività elencati nella parte I dell’All. IV alla parte V del D.Lgs. 152/2006, ossia impianti le cui emissioni sono scarsamente rilevanti;
  • stabilimenti destinati alla difesa nazionale;
  • impianti di cui all’art. 269, comma 14, del D.Lgs. 152/2006;
  • impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti di cui all’art. 208 del D.Lgs. 152/2006;
  • interventi di bonifica di cui all’art. 242 del D.Lgs. 152/2006;

L’AUA deve essere richiesta:

  • prima della costruzione e del successivo esercizio dello stabilimento/attività/impianto, o in caso di trasferimenti;
  • allo scadere del primo dei titoli abilitativi ricadenti in AUA;
  • in caso di modifica sostanziale delle attività autorizzate.

Ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. 81/08, il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi e predisporre il documento di valutazione dei rischi, come previsto dall’art. 28 dello stesso decreto, al fine di eliminarli e/o ridurli al minimo. Una delle possibili misure di prevenzione che il datore di lavoro deve applicare per ridurre i rischi che possono incidere sulla SALUTE dei lavoratori è proprio la sorveglianza sanitaria.

Come previsto dall’art. 41 del D. Lgs. 81/08, la sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente ed è obbligatoria quando è prevista ai sensi della vigente normativa. Il legislatore ha inoltre chiesto alla Commissione Consultiva Permanente per la Salute e Sicurezza sul Lavoro di identificare i casi in cui la sorveglianza sanitaria sia obbligatoria, ma fino ad oggi non ha emanato nessuna indicazione in merito.

Per quanto sopra, al momento attuale, la sorveglianza sanitaria è obbligatoria quando dalla valutazione di cui all’art. 17 sono presenti:

  • Rischi dovuti alla movimentazione dei carichi e movimenti ripetuti per gli arti superiori;
  • Rischi legati all’uso di attrezzature munite di videoterminale per più di 20 ore alla settimana;
  • Rischi legati all’esposizione ad agenti fisici quali: rumore, vibrazioni meccaniche, ultrasuoni/infrasuoni, campi elettromagnetici, radiazioni ottiche, microclima;
  • Rischi legati all’esposizione ad sostanze pericolose: chimiche, cancerogene, mutagene, sensibilizzanti se questa esposizione è “non irrilevante per la salute”;
  • Rischi legati alla presenza di Agenti biologici;
  • Lavoro notturno;
  • Radiazioni ionizzanti;
  • Lavoro in sovrappressione;
  • Lavoro in ambienti confinati;
  • Lavoro su impianti elettrici ad alta tensione;
  • Lavoratori addetti al servizio di controllo delle attività di intrattenimento;
  • Addetti al settore sanitario esposti a rischi per ferite da taglio.

Oltre all’elenco sopra riportato, le Regioni potrebbero emanare casi aggiuntivi per il quale è obbligatoria la sorveglianza sanitaria.

In conclusione, se un datore di lavoro (anche con un solo lavoratore come definito dall’art. 2 comma 1 lettera a), identifica la presenza di uno (o più) dei rischi sopra elencati, deve contattare un medico competente il quale predispone il protocollo sanitario al fine di identificare la cadenza della sorveglianza sanitaria.

Sì, un lavoratore interinale che entra presso una ditta utilizzatrice deve essere sottoposto a sorveglianza sanitaria quando quest’ultima è obbligatoria ai sensi dell’art. 41 D.Lgs. 81/08.

Il Decreto Legislativo 81/2015, che gestisce i contratti di lavoro (Jobs Act), specifica che il datore di lavoro somministratore deve sottoporre a visita medica il lavoratore, ma lo stesso decreto riporta anche che tale attività può essere fatta dal datore di lavoro utilizzatore se l’adempimento viene specificato nel contratto tra somministratore e utilizzatore.

Con quest’ultima postilla sopra riportata si può sicuramente concludere che la sorveglianza sanitaria sarà quasi sempre a carico del datore di lavoro utilizzatore.

Da tenere presente però che il datore di lavoro somministratore deve fornire indicazioni in merito ai rischi presenti presso l’azienda utilizzatrice. La cartella sanitaria del lavoratore interinale deve essere conservata in busta chiusa dal datore di lavoro utilizzatore (o dal suo medico competente) e deve essere restituita al datore di lavoro somministratore (o al suo medico competente) al momento della conclusione della collaborazione lavorativa.

Il lavoratore interinale deve essere formato sui rischi presenti presso l’azienda utilizzatrice. Nonostante il datore di lavoro del lavoratore interinale sia l’agenzia, solitamente l’onere di formare il lavoratore ricade sulla ditta utilizzatrice in quanto questo viene definito sul contratto. L’agenzia interinale è comunque obbligata a riportare per iscritto i rischi presenti presso l’utilizzatore sul contratto con il lavoratore.

Ai sensi del D.Lgs.81/2015, “il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro” (art. 34 c.3 D.Lgs.81/2015).

Questa norma va a collegarsi all’articolo 4 c.2 del D.Lgs.81/08, il quale – rimasto invariato – prevede che “i lavoratori utilizzati mediante somministrazione di lavoro ai sensi degli articoli 20 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 [ora art. 30 e seguenti D.Lgs.81/2015, n.d.r.], e successive modificazioni e i lavoratori assunti a tempo parziale ai sensi del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modificazioni, si computano sulla base del numero di ore di lavoro effettivamente prestato nell’arco di un semestre.”

Il datore di lavoro è sempre responsabile di verificare che la ditta incaricata rispetti le scadenze di manutenzioni e verifiche. Potrebbe non essere responsabile di tale onere solamente nel caso in cui abbia delegato per iscritto, fornendo le adeguate libertà economiche ed organizzative, una persona interna all’azienda. Ma anche in questo caso il datore di lavoro è obbligato a verificare l’effettivo lavoro svolto dal suo lavoratore.

In caso di incidente, il datore di lavoro comunque può rifarsi su quanto scritto sul contratto per eventuali danni ma non sarà esonerato dal rispondere in quanto primo responsabile della sicurezza in azienda.

Ai sensi dell’art 39 comma 6 del D.Lgs. 81/08, il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico coordinatore nei seguenti casi:

  • aziende con più unità produttive;
  • nei casi di gruppi di imprese 
  • nel caso in cui emerga la necessità dalla valutazione dei rischi.

Il datore di lavoro deve formare i lavoratori dipendenti entro massimo 60 giorni dopo l’assunzione. La normativa specifica che i percorsi formativi debbano essere avviati prima dell’effettivo inserimento del nuovo dipendente, e solo nel caso in cui questo sia impossibile deroga l’obbligo successivamente all’assunzione

La formazione dei lavoratori in caso di nuove assunzioni è regolata dall’Accordo Stato Regioni del 21/12/2011, nel quale, al punto 10, sono riportate le disposizioni transitorie di prima applicazione, che dispone infatti:

“Il personale di nuova assunzione deve essere avviato ai rispettivi corsi di formazione anteriormente o, se ciò non risulta possibile, contestualmente all’assunzione. In tale ultima ipotesi, ove non risulti possibile completare il corso di formazione prima della assunzione del dirigente, del preposto o del lavoratore alle proprie attività, il relativo percorso formativo deve essere completato entro e non oltre 60 giorni dalla assunzione”.

Secondo l’Accordo, dunque, la formazione dei lavoratori neoassunti, ma anche per i dirigenti e i preposti, dovrebbe essere erogata prima che il lavoratore venga adibito alla sua attività, salvo il caso che questo sia impossibile l’accordo consente di poter provvedere nel momento stesso dell’assunzione, come del resto è stato indicato nelle disposizioni di legge.

60 giorni indicati nell’Accordo non si intendono come il periodo entro cui il datore di lavoro debba avviare il percorso formativo, ma si intendono come il tempo massimo entro il quale il lavoratore lo deve concludere, e comunque solo nel caso non abbia potuto partecipare ai corsi precedentemente all’avvio delle proprie mansioni.

All’articolo 37 del D. Lgs. n. 81/2008 il legislatore ha deciso che la formazione dei lavoratori e per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS), deve avvenire durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico dei lavoratori.

Il datore di lavoro deve, ai sensi dell’art. 18 comma 1 lettera n), “consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute”. Quindi i lavoratori hanno diritto di avere un loro rappresentante secondo la seguente procedura:

  • per le aziende fino a 15 lavoratori il rappresentante viene nominato direttamente dai lavoratori;
  • per le aziende con più di 15 lavoratori il rappresentante viene nominato all’interno delle rappresentanze sindacali.

Nel caso in cui i lavoratori nominino un loro rappresentante il datore di lavoro avrà i seguenti obblighi:

  1. formare il RLS ai sensi dell’art. 37 comma 10 D.lgs. 81/08;
  2. comunicare tale nominativo all’INAIL utilizzando il portale del Istituto Nazionale.

In conclusione il datore di lavoro non può venire sanzionato per la mancata nomina del RLS.

Il D.lgs. 81/08 specifica che “Al lavoratore così definito” dall’art. 2 comma 1 lettera a) “è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di società […]”. Perciò, il datore di lavoro è obbligato a somministrare la formazione, come prevista dall’Accordo Stato Regioni 21/12/2011, anche al socio lavoratore.

Ai sensi dell’art. 47 comma 2 del D.Lgs. 81/08, in tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

L’RLS deve perciò essere individuato per ciascuna delle sedi aziendali qualora esse si qualifichino come unità produttive, la cui definizione troviamo all’art. 2, comma 1, lett. t): “stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.

Nel caso la sede aziendale non rientri nella definizione di cui sopra, è la contrattazione collettiva che stabilisce le modalità cui attenersi, ai sensi dell’art. 47 comma 5 del D.Lgs. 81/08:

“Il numero, le modalità di designazione o di elezione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, nonché il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l’espletamento delle funzioni sono stabiliti in sede di contrattazione collettiva. “

In ogni caso è raccomandato privilegiare l’individuazione di RLS presenti in ciascuna sede aziendale.

Ai sensi dell’art. 21, comma 1, del D.Lgs. 81/08, i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ai sensi dell’art. 2222 del Codice Civile, quali sono i liberi professionisti, devono:

  • Utilizzare le attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al Titolo III;
  • Munirsi di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al Titolo III;
  • Munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità e l’indicazione del committente (ai sensi dell’art. 5 della Legge n. 136/2010), qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgono attività in regime di appalto o subappalto.

Inoltre, al pari di tutti i lavoratori, anche il libero professionista deve:

  • svolgere i corsi di formazione sulla sicurezza sul lavoro e i relativi aggiornamenti, secondo le indicazioni dell’art. 37 del D.Lgs 81/08, ai sensi dell’art. 20, comma 2, lett. h).
  • sottoporsi a sorveglianza sanitaria, secondo le indicazioni dell’art. 41 del D.Lgs 81/08, ai sensi dell’art. 20, comma 2, lett. i);

In breve la differenza sostanziale tra lavoratore subordinato e libero professionista, per quanto concerne la sicurezza sul lavoro, sta nel fatto che tutti gli oneri economici sono a carico del libero professionista, pur potendo beneficiare della formazione e della sorveglianza sanitaria erogate dell’azienda.

Il Datore di Lavoro, inoltre, ai sensi dell’art. 26 del D.Lgs. 81/08, in caso di affidamento di lavori, servizi o forniture a lavoratori autonomi, deve:

  • verificarne l’idoneità tecnico-professionale;
  • fornire informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente cui sono destinati ad operare;

A eccezion fatta, secondo le indicazioni del comma 3 bis del presente articolo, in caso di servizi di natura intellettuale,  di mere forniture di materiali o attrezzature e di lavori o servizi la cui durata non è superiore a 5 uomini-giorno, sempre che essi non comportino rischi derivati dal rischio di incendio elevato, dallo svolgimento di attività in ambienti confinati, dalla presenza di agenti cancerogeni, mutageni o biologici, di amianto, di atmosfere esplosive o dalla presenza di rischi particolari di cui all’All. XI del D.Lgs. 81/08.

Nel caso specifico di un libero professionista monomandatario o stazionario si deve, in ogni caso, porre attenzione circa la tipologia contrattuale in essere. La Legge n. 92/2012 ha introdotto, infatti, il concetto di presunzione legale relativa in base alla quale, in assenza di prova contraria fornita dal committente, le prestazioni svolte da un libero professionista titolare di partita Iva sono riqualificate come rapporti di lavoro dipendente se sono presenti almeno due delle condizioni individuate dall’art. 69 bis del D.Lgs. 276/2003.

Le condizioni summenzionate sono le seguenti:

  1. Criterio temporale – La collaborazione con il medesimo committente ha una durata complessiva di 8 mesi per anno civile, per 2 anni consecutivi;
  2. Criterio del fatturato – Il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro di imputazione di interessi, costituisce più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di 2 anni solari consecutivi;
  3. Criterio organizzativo – Il lavoratore dispone di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.

La riqualificazione del rapporto con partita Iva in lavoro dipendente comporta l’applicazione della relativa normativa con il rischio di vedere convertire il rapporto in essere in lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione del rapporto originale, con tutto quel che ne consegue.

In estrema sintesi è fondamentale l’autonomia operativa ed organizzativa del lavoratore autonomo, che deve essere in grado di decidere autonomamente i tempi, le modalità e i mezzi necessari per l’esecuzione della prestazione e non deve essere sottoposto al potere direttivo, organizzativo, disciplinare e di controllo del committente.

Esistono casi però in cui i rapporti di lavoro tra committente  e liberi professionisti non sono soggetti ad alcuna presunzione di lavoro subordinato. Sono infatti escluse le prestazioni con le seguenti caratteristiche:

  • il lavoratore ha competenze teoriche di grado particolarmente elevato (possesso di un diploma, un titolo universitario, particolari qualifiche e apprendistato professionale o di alta formazione e ricerca, ovviamente pertinenti all’attività da svolgere) acquisite con percorsi formativi rilevanti e/o maturate nel corso di anni di esperienza (possesso di qualifiche ottenute lavorando per almeno 10 anni come subordinato, così come lo svolgimento dell’attività autonoma per almeno 10 anni);
  • la retribuzione annua del lavoratore non è inferiore a 1,25 volte il reddito minimale stabilito ogni anno dall’Inps per il versamento dei contributi previdenziali (quindi intorno ai 18.000 euro);

E’ esclusa inoltre la presunzione di rapporto di lavoro subordinato anche quando le prestazioni svolte dal lavoratore autonomo richiedano l’iscrizione ad un albo o elenco professionale qualificato: ingegneri, architetti, avvocati, notai, commercialisti, consulenti del lavoro, psicologi, medici, dentisti, farmacisti, veterinari, biologi, chimici ecc …

Il D.Lgs. 81/2008 prevede che tutti i lavoratori che utilizzano specifiche attrezzature di lavoro ricevano una adeguata formazione, aggiuntiva a quella obbligatoria prevista sempre dall’art. 37 del D.Lgs. 81/2008 e dall’Accordo Stato-Regioni del 21/12/2011. 

Ai sensi dell’art. 71, comma 7, del D.Lgs. 81/08, infatti:

“Qualora le attrezzature richiedano per il loro impiego conoscenze o responsabilità particolari in relazione ai loro rischi specifici, il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché l’uso dell’attrezzatura di lavoro sia riservato ai lavoratori allo scopo incaricati che abbiano ricevuto informazione, formazione ed addestramento adeguati.”

Ciò è ribadito nell’art. 73 del D.Lgs. 81/08:

“Il datore di lavoro provvede affinché i lavoratori incaricati dell’uso delle attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari di cui all’art.71, comma 7, ricevano una formazione informazione ed addestramento adeguati e specifici, tali da consentire l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro anche in relazione ai rischi che possono essere causati ad altre persone.” (art. 73 c.4 D.Lgs. 81/08)

che aggiunge:

 “In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sono individuate:  le attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione.” (art. 73 c.5 D.Lgs. 81/08)

L’Accordo Stato-Regioni n. 53 del 22/02/2102 ha quindi, in attuazione dell’art. 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08, introdotto l’obbligo di partecipazione a corsi specifici per alcune attrezzature, stabilendone la durata, i contenuti e i requisiti del docente e dell’Ente Formatore. 

Il carroponte non rientra però tra le attrezzature individuate dal summenzionato Accordo Stato-Regioni pertanto il numero di ore e le modalità della formazione non sono attualmente definite.

Ciò non esclude, tuttavia, l’obbligo per il datore di lavoro di provvedere comunque alla formazione dei lavoratori addetti al suo utilizzo, anche se non menzionato nell’Accordo. Il datore di lavoro deve, perciò, provvedere a informare, formare e addestrare i lavoratori addetti all’uso del carroponte anche se non esistono corsi di formazione stabiliti per legge come per altre attrezzature. 

Poiché il suo utilizzo è all’origine di molti infortuni e incidenti mortali sul lavoro è raccomandato, in via precauzionale, di trattare il carroponte come una delle attrezzature contemplate nell’Accordo Stato-Regioni n.53 del 22/02/2012 e, nella fattispecie, di somministrare ai lavoratori addetti al suo uso un corso di formazione che preveda almeno:

  • Modulo giuridico di 1 ora
  • Modulo tecnico di 3 ore
  • Modulo pratico di 4 ore

con prove al termine di ciascun modulo e prova pratica finale. 

È bene prevedere anche un corso di aggiornamento, ogni 5 anni dalla data della verifica finale di apprendimento, di almeno 4 ore di cui almeno 3 ore relative agli argomenti del modulo pratico.

Sì, il Datore di Lavoro è tenuto a sottoporre l’impianto elettrico a manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 80 del D.Lgs. 81/08, Titolo III, Capo III:

“Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché i lavoratori siano salvaguardati dai tutti i rischi di natura elettrica connessi all’impiego dei materiali, delle apparecchiature e degli impianti elettrici messi a loro disposizione […]” (art. 80, comma 1)

“A seguito della valutazione del rischio elettrico il datore di lavoro adotta le misure tecniche ed organizzative necessarie ad eliminare o ridurre al minimo i rischi presenti, ad individuare i dispositivi di protezione collettivi ed individuali necessari alla conduzione in sicurezza del lavoro ed a predisporre le procedure di uso e manutenzione atte a garantire nel tempo la permanenza del livello di sicurezza raggiunto con l’adozione delle misure di cui al comma 1.“ (art. 80, comma 3)

 “Il datore di lavoro prende, altresì, le misure necessarie affinché le procedure di uso e manutenzione di cui al comma 3 siano predisposte ed attuate tenendo conto delle disposizioni legislative vigenti, delle indicazioni contenute nei manuali d’uso e manutenzione delle apparecchiature ricadenti nelle direttive specifiche di prodotto e di quelle indicate nelle pertinenti norme tecniche.” (art. 80, comma 3 bis)

Inoltre, ai sensi dell’art. 86, comma 1, del D.Lgs. 81/08:

“… il datore di lavoro provvede affinché gli impianti elettrici e gli impianti di protezione dai fulmini siano periodicamente sottoposti a controllo secondo le indicazioni delle norme di buona tecnica e la normativa vigente per verificarne lo stato di conservazione e di efficienza ai fini della sicurezza.”

Oltre a quanto imposto dalla legislazione precedentemente elencata, l’obbligo della manutenzione degli impianti elettrici è in particolare richiesto anche dalla legislazione specifica in materia (art. 8, comma 2, del DM 37/2008, ecc …) e dalle norme esistenti in materia di sicurezza antincendio.

Ai sensi dell’art. 4, comma 1, del DPR 462/2001:

“Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare regolari manutenzioni dell’impianto, nonché a far sottoporre lo stesso a verifica periodica ogni cinque anni, ad esclusione di quelli installati in cantieri, in locali adibiti ad uso medico e negli ambienti a maggior rischio in caso di incendio per i quali la periodicità è biennale.”

Il decreto summenzionato, però, non fornisce ulteriori precisazioni circa gli ambienti a maggior rischio in caso di incendio. In questo ci aiuta l’art. 751.03.1.1 della norma CEI 64-8/7:

“L’individuazione degli ambienti a maggior rischio […] dipende da una molteplicità di parametri […] Tali parametri devono essere opportunamente esaminati nel più vasto ambito della valutazione dei rischi e della prevenzione incendi, a monte del progetto elettrico.”

Permane il dubbio se le attività soggette a CPI siano comprese nella categoria o meno. Tale dubbio è però risolto dall’art. 751.03.1.2 della norma CEI 64-8/7, che recita quanto segue:

“In generale, in assenza di valutazioni eseguite nel rispetto di quanto indicato in 751.03.1.1, gli ambienti dove si svolgono le attività elencate nel D.M. 16-02-1982, i cui progetti sono soggetti all’esame e parere preventivo dei comandi provinciali dei vigili del fuoco ed il cui esercizio è soggetto a visita e controllo ai fini del rilascio del “Certificato di prevenzione incendi”, sono considerati ambienti a maggior rischio in caso di incendio.”

Quindi, a meno che la Valutazione dei Rischi non riesca a dimostrare l’esclusione del luogo di lavoro dagli “ambienti a maggior rischio incendio”, in tutte le aziende soggette a rilascio del CPI la periodicità della verifica dell’impianto di messa a terra è biennale.

I lavoratori di cittadinanza estera che lavorano in Italia devono sottostare agli stessi adempimenti dei lavoratori italiani, con le stesse tutele e gli stessi obblighi previsti dalla legislatura italiana (nello specifico dal D.Lgs. 81/08) salvo nel caso in cui la legislatura in materia di salute e sicurezza sul lavoro del Paese di provenienza del lavoratore sia più stringente.

Nell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. 81/08 si afferma infatti:

“[…] Il presente decreto legislativo persegue le finalità di cui al presente comma … garantendo l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati.”

La tutela è applicabile alla generalità dei lavoratori stranieri.

Il datore di lavoro è inoltre tenuto, in virtù anche dell’art. 2087 cod. civ., a tener conto della presenza di lavoratori immigrati in fase di attuazione di tutti gli obblighi di prevenzione e di predisposizione delle “misure generali di tutela” di cui all’art. 15 del D.Lgs. 81/08, ad adottare interventi mirati che rispondano all’obbligo, ex art. 28, di valutare i rischi lavorativi connessi con la provenienza dei prestatori da altre nazioni nonché adottare modalità di attuazione degli obblighi dell’informazione e della formazione (di cui agli artt. 36 e 37) capaci di soddisfare i principi di adeguatezza ed effettività pure quando il fruitore delle azioni informative e formative sia un lavoratore straniero:

“Il contenuto della informazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le relative conoscenze. Ove la informazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo.“ (art. 36, c.4)

“Il contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo.” (art. 37, c.13)

Occorre ricordare che gli strumenti e le modalità con le quali si è provveduto alla verifica della comprensione della lingua devono essere indicati nel piano formativo.

In attuazione dell’art. 37, l’Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 ribadisce il dettato normativo sull’effettività della formazione ed esplicita, sia pure in modo esemplificativo, taluni possibili strumenti da porre in essere per superare le difficoltà derivanti da eventuali limitate competenze linguistiche dei lavoratori stranieri, come il supporto di un traduttore o di un mediatore interculturale.

La sentenza n. 37598 del 16/09/2015 della Corte di Cassazione ha disposto che il datore di lavoro, in mancanza dei requisiti di sicurezza, è responsabile degli infortuni dei dipendenti anche fuori orario di lavoro, purché la causa del’infortunio sia inerente al processo produttivo e alle mansioni attribuite.

Alla stessa conclusione circa la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortuni fuori orario di lavoro  è giunta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 40706/2017, che stabilisce che non è importante il momento in cui il lavoratore si è infortunato ma il luogo (ovvero l’azienda).

Non solo, in tale occasione la Corte di Cassazione ha aggiunto che compito del datore è quello di evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica intrinsecamente connaturati all’esercizio di alcune attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui tali rischi siano conseguenti a negligenze, imprudenze e disattenzioni del lavoratore, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Inoltre, l’azienda stessa è obbligata per legge non solo ad attuare tutte le misure di sicurezza, ma anche a vigilare affinché i lavoratori si adeguino alle regole e non siano imprudenti.

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Carlo Bavosi
General Manager, Goriziane Group Spa

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